DECADENZA
Di quando smetti di aggiustare tutto, e inizi a guardare cosa resta
Dati sensibili è la newsletter di BUNS che arriva due volte al mese, il 7 e il 21. Ogni numero parte da una parola sola. Questa volta è decadenza, sostantivo che suona un po’ gotico, un po’ estetica Tumblr, ma che in realtà parla di noi quando smettiamo di fingere che tutto funzioni.
È la pianta che muore anche se la innaffiate, il social che non vi diverte più, la tazza sbeccata che non riuscite a buttare. È il momento in cui la patina si stacca e restiamo lì, tra una notifica e un tramonto alle cinque, a guardare il disordine e chiamarlo vita. Non troverai drammi né moralismi: solo un piccolo inno alla fine delle cose - quelle che si rompono, che si spengono, che smettono di performare. Perché nella decadenza c’è un dato sensibile: ci ricorda che siamo ancora vivi.
Fine ottobre, scrivania piena
Siamo quasi a fine ottobre.
Le giornate si sono accorciate, il calendario è pieno di cose che non abbiamo ancora fatto, e la scrivania ha quella collezione di tazze, fogli, cavi e buone intenzioni che ormai fa arredamento. Ogni anno promettiamo a noi stessi un “autunno produttivo”, ma finiamo sempre nello stesso posto: in mezzo ai resti. Di progetti a metà, di stagioni finite, di file che non apriamo più ma non abbiamo il coraggio di cancellare. Ecco, forse è questo il punto. La decadenza non è la rovina, ma la forma più onesta della continuità.
Non distrugge: stratifica
Dentro quella stratificazione - di immagini, linguaggi, emozioni, dati - si nasconde un nuovo tipo di bellezza. Quest’anno, la decadenza è tornata di moda in senso letterale. Alla Barbican di Londra, la mostra Dirty Looks: Desire and Decay in Fashion celebra i vestiti bruciacchiati, i tessuti sfilacciati, le camicie macchiate di rossetto.
È una reazione chiara al culto della pulizia perfetta, dei feed coordinati, dell’ottimizzazione come religione. Dopo anni di clean girl aesthetic, di pelli senza pori e di case e bambini beige arriva una contro-narrativa: il piacere di non essere perfetti. Il disordine diventa linguaggio. La macchia, un manifesto.
L’attrito come rifugio
E non è solo moda. È un cambio di clima culturale.
Dalla musica al design, cresce l’attenzione per tutto ciò che mostra l’usura del tempo: le superfici ruvide, i colori polverosi, le immagini analogiche. Nell’era dei contenuti generati da IA - lucidi, lisci, impeccabili - il pubblico comincia a cercare l’attrito, la prova che dietro c’è una mano vera. Basta guardare TikTok e Instagram: il ritorno del gotico soft, i make-up teatrali e un po’ sbavati, i video “lo-fi” volutamente imperfetti. È un desiderio di corpo, di realtà, di sbavatura. Il caos come antidoto all’automatismo.
Decadenza creativa
Anche nella musica, il movimento è simile. Rosalía, Arca, Bad Bunny, ma anche molti artisti emergenti italiani, stanno rompendo i confini di genere, lingua e suono. Mischiano tutto, confondono le etichette, suonano volutamente “sporchi”.
È la decadenza come atto creativo: un’arte che smette di cercare purezza e abbraccia la contaminazione. Perché alla fine è questo che ci manca: un po’ di realtà dentro la perfezione.
Le nostre archeologie digitali
Viviamo in un mondo che aggiorna se stesso ogni minuto, ma noi abbiamo ancora bisogno di tempo. Tempo per cambiare idea, per invecchiare bene, per lasciare sedimentare. E quando non lo troviamo, lo reinventiamo: nelle playlist storte, nelle newsletter che non arrivano puntuali, nei post che non seguono i trend.
Perfino i dati stanno cambiando pelle. Non più solo strumenti di misura, ma materiale sensibile, con una vita propria. Ci accorgiamo che i dati invecchiano, perdono significato, ma non valore. Un file chiamato “bozza_finale_3” racconta molto più di un report perfetto: parla di tentativi, errori, stratificazioni. Le nostre cartelle digitali sono piccole archeologie emotive: dentro c’è tutto - quello che siamo stati e quello che non abbiamo mai finito.
L’antidoto all’iper-ottimizzazione
La decadenza è lentezza che resiste, margine che racconta, imperfezione che ci restituisce autenticità. Vale anche per la cultura dei dati: stiamo entrando in una fase in cui le persone non vogliono solo “più informazione”, ma informazione che abbia senso. Dati con una storia, una provenienza, un contesto.
Progetti che non mostrano solo grafici, ma raccontano ciò che si è perso, non solo ciò che resta. È la stessa spinta che sta trasformando il giornalismo dei dati e il lavoro delle istituzioni culturali: mostrare il processo invece del risultato.
La decadenza, in questo, è maestra: non promette chiarezza, ma onestà.
Un modo più adulto di guardare il tempo
Anche nel nostro quotidiano digitale succede così. I social si ripuliscono, ma le nostre gallerie restano caotiche. Gli algoritmi ci suggeriscono cosa vedere, ma noi torniamo a cercare voci umane: newsletter, podcast, curatori, persone che scelgono con intenzione. Perché di playlist automatiche ne abbiamo a sufficienza. Ci servono storie, non previsioni.
La decadenza ci ricorda che non tutto va ottimizzato, e non tutto va salvato. Alcune cose vanno semplicemente lasciate andare: una foto sgranata, un account dimenticato, una vecchia idea che non serve più. Lasciarle lì non è trascuratezza, è memoria.
È accettare che anche il digitale ha diritto a una vita imperfetta.
Alla fine, la decadenza non è nostalgia.
È solo un modo più adulto di guardare il tempo: sapere che tutto passa, ma qualcosa resta. E quel qualcosa - graffiato, rovinato, non più lucido - spesso è la parte più vera.


