GENITORE
Del mio inciampo sul concetto di reparenting
Dati sensibili è la newsletter di BUNS che arriva due volte al mese, il 7 e il 21. Ogni numero parte da una parola sola. Questa volta è genitore, sia nel senso familiare del termine, che in quello più scivoloso e profondo: chi tiene insieme le nostre parti quando la vita si smonta? Chi ci rimette al mondo quando ci perdiamo? Il genitore non è una figura, è una funzione.
È la voce che ti raddrizza, quella che ti consola, quella che ti ripara, quella che ti dice “non è la fine del mondo” anche quando tu sei convinta del contrario. È un gesto, non un ruolo. Cosa c’entra tutto questo con i dati sensibili? Vediamolo insieme.
Il mio inciampo sul reparenting
Ci sono parole che non cerchiamo, ma che ci trovano. A me è successo con reparenting: una di quelle espressioni che incontriamo di sfuggita - in un articolo malconcio, in una frase detta a caso - e che però ci restano appese addosso. È successo qualche sera fa, senza un motivo evidente. Non stavo pensando a me come madre. Né a Nora. Né a come “si dovrebbe” essere.
Mi ha colpito in tutt’altra direzione: quella in cui ci accorgiamo che da adulti stiamo facendo da genitore… a noi stessi. Stiamo cercando di insegnarci una tenerezza che nessuno ci ha passato. Stiamo riscrivendo un tono, un confine, un permesso. Ed è da lì che questa newsletter ha preso forma. Se la togliete dal contesto familiare, la parola “genitore” diventa un dispositivo culturale potentissimo. Ma reparenting ha anche un significato più profondo.
Il reparenting Millennial
I Millennial sono la prima generazione che cresce i propri figli mentre prova, allo stesso tempo, a rimettere insieme i pezzi di sé. È una doppia educazione: una rivolta verso il futuro e una rivolta verso l’interno. Non c’erano manuali per questo, e non c’erano parole. Ci siamo trovati in mezzo, senza preavviso: una generazione cresciuta a “fatti forte”, “non fare storie”, “non esagerare”, che oggi si impegna a dare ai bambini tutto ciò che non ha ricevuto.
Secondo una ricerca pubblicata sul Journal of Family Psychology, molti adulti nati tra gli anni Ottanta e i primi Duemila stanno praticando un processo in cui si rielaborano le carenze affettive ricevute nell’infanzia, mentre si prova a non ripeterle con i propri figli. È come se ci fosse una piccola cerniera invisibile tra la nostra storia e la loro, e noi stessimo cercando, con attenzione, di non farla inceppare.
Il reparenting Millennial succede in tanti modi minuscoli: nel chiedere scusa ai bambini quando sbagliamo, anche quando a noi nessuno ha mai chiesto scusa; nel dire “ti voglio bene” senza motivo, non come premio ma come presenza; nel mettere parola sulle emozioni - rabbia, frustrazione, tristezza - che da piccoli non avevamo imparato a nominare; nel riconoscere i nostri limiti, invece di mascherarli; nel proteggere i loro confini ma anche i nostri, per non dissolverci.
Succede anche nei momenti meno fotogenici: nelle giornate storte, nelle risposte che ci scappano, nella stanchezza che ci fa tornare simili a ciò da cui volevamo allontanarci. Ma è proprio lì che il reparenting si gioca davvero: quando scegliamo di interrompere un ciclo che sembra naturale, perché ci è familiare, ma che non vogliamo più vedere ripetersi.
La verità è che non stiamo solo educando i nostri figli: stiamo educando una versione di noi che non aveva avuto questa possibilità. E questa è forse la rivoluzione più gentile, e radicale, della nostra generazione.
Il doppio turno emotivo
Fuori sembriamo fare le stesse cose di sempre - colazione, lavoro, routine - ma dentro stiamo portando avanti due crescite parallele. Il risultato è una stanchezza strana, specifica, che non assomiglia al semplice “sono esausta”: è più vicina alla fatica di chi smonta e rimonta un pezzo ogni giorno senza che nessuno se ne accorga. Non c’è performance. Ci sono solo micro-decisioni minuscole che cambiano il corso della storia: non ripetere la stessa frase che ti feriva, dare un nome a un’emozione che ti hanno sempre detto di archiviare, dire “hai ragione” quando il riflesso vorrebbe chiudere la questione. È ciò che succede quando una generazione decide che la linea ereditaria può essere riscritta anche nei dettagli più piccoli.
Siamo traduttori simultanei tra due sistemi culturali. Uno è secco, lineare, a volte brusco. L’altro è più morbido, più lento, più faticoso. E ogni giorno è un esercizio di riscrittura: la frase antica che ti viene spontanea, quella nuova che provi a dire al suo posto. È la prova che il cambiamento culturale non nasce nelle leggi o nei trend, ma nelle frasi che ci diciamo mentre allacciamo una scarpa.
Cosa c’entrano i dati sensibili?
C’entrano perché il reparenting non si vede mai nelle grandi scelte: si vede nei dettagli. Nei dati minuscoli che filtrano nel quotidiano e che nessun indicatore macro catturerà mai. Sono cose che non finiscono nei report: la pausa di due secondi prima di rispondere, la frase che scegli di non dire, il modo in cui ti avvicini quando tuo figlio è in crisi invece di allontanarti. I dati sensibili sono questo: la misura invisibile del cambiamento.
Le generazioni precedenti avevano modelli espliciti, strutture, gerarchie. Noi abbiamo micro-gesti. Indicatori fragili, quasi privati, che però raccontano meglio di qualsiasi grafico la direzione culturale che stiamo prendendo. Un Millennial che si ferma un attimo prima di reagire sta già modificando un pattern ereditato. Un millennial che nomina un’emozione che da piccolo non gli è mai stata concessa sta alterando una genealogia intera.
I dati sensibili sono la prova che la trasformazione non avviene nei grandi discorsi sulla genitorialità, ma nelle vibrazioni piccole, nei comportamenti non misurati, nei ripensamenti silenziosi. Sono gli unici dati capaci di mappare ciò che cambia davvero: la qualità della nostra voce interiore, la densità dei nostri confini, il modo in cui passiamo da una generazione all’altra senza schiacciare niente.



